mercoledì 29 maggio 2013

Stefano Galli Band

Dopo una decina d’anni passati a masticare blues e rock’n’roll (una bella fetta dei quali con Robi Zonca) Stefano Galli ha deciso, come è logico e naturale che sia, di trovarsi la sua strada. L’ha fatto partendo da un gruppo solidissimo che comprende Marco Sacchitella alla batteria, Bobo Aiolfi al basso e il tastierista Francesco Chebat i cui suoni hanno un ruolo non relativo nel creare la personalità della Stefano Galli Band. All’esordio ha contribuito in fase di produzione Mauro Galbiati, responsabile della qualità del suono di Play It Loud! e piccoli, significativi aiuti sono arrivati anche da Veronica Sbergia e Max De Bernardi in Everybody Shuffle e da Francesco Piu in I Ride My Car. I nomi degli ospiti e il curriculum delle chitarre suggeriscono già sufficienti coordinate per seguire la Stefano Galli Band: con Play It Loud! si attraversano spazi molto americani e un repertorio che si fa carico di una bella la versione di Mr. Robinson, piuttosto che di It Hurts Me Too di Elmore James o Can’t Find My Way Home o ancora un’originale interpretazione di Personal Jesus. C’è spazio per i fiati, per molte raffinatezze strumentali e per sfiorare certe vette inarrivabili. Per dire, all’inizio, quando la Stefano Galli Band pesta duro in No Matter What They Say, sembra di sentire i Black Crowes periodo Three Snakes And One Charm e Winner potrebbe stare su un disco di Tom Petty. Un bel modo per cominciare: alzate il volume, lo dice anche il titolo. (Eddie Spinazzi)

Etnoritmo

L’esperienza degli Etnoritmo è frutto della vulcanica predisposizione di Paolo Farina, iperattivo musicista pugliese (ma da anni trapiantato nella periferia milanese) che nel 2000 ha assemblato il suo multiforme ensemble. Nel nucleo essenziale degli Etnoritmo c’è uno spirito cosmopolita che, attraverso le rotte del Mediterraneo, legge tutta una particolarissima mappa sonora. A dispetto dei luoghi comuni, il dialetto diventa allora il linguaggio musicale più spontaneo e un’occasione di incontro con altri modelli ed esperienze. Il primo disco, Sitanafri è già uno splendido esempio del vagabondare di Paolo Farina, ma è con Tondomondo che gli Etnoritmo raggiungono una precisa definizione, grazie anche a una canzone, Le montagne sono alte, in cui s’intrecciano italiano, pugliese, arabo e albanese. La ricchezza degli elementi etnici non impedisce ad altre sfumature di emergere in modo più naturale ed essendo una realtà in costante evoluzione, gli Etnoritmo si sono proiettati anche verso una personalissima rilettura delle proprie canzoni nel recente Dall’acustico all’elettrico, dove hanno ripescato e riarrangiato selezioni di Sitanafri e Tondomondo con un’apertura totale per ospiti e amici che li hanno portati a convogliare in una colorita identità le più svariate sonorità, dagli Stormy Six alla tammurriata. Contaminati, espressivi, coraggiosi gli Etnoritmo sono l’esempio concreto di un mondo (senza paure) ancora possibile. (Stefano Hourria)

venerdì 24 maggio 2013

Evasio Muraro

L’ondeggiante sfarfallìo che introduce Scontro tempo in quel futuribile esempio di canzone d’autore italiana che è Venti volte è sufficiente a comprendere che la svolta cercata e voluta di Evasio Muraro si è compiuta in un disco di una bellezza rarefatta e intensa, le cui mille forme si presentano in altrettanti maiuscoli particolari. Giocoforza, Muraro deve condividere ampiamente il merito con Chris Eckman la cui produzione, senza snaturarne le caratteristiche che avevamo già apprezzato in Canzoni per uomini di latta e O tutto o l’amore, allarga le prospettive con un taglio molto affilato e avanzato. L’effetto migliore della sua produzione, si presume, è comunque aver uniformato e reso coerenti sfumature molto lontane, dal genialoide duetto free tra batteria e sassofono di Giorni al funk di Puzzo di fame e Contiene il cielo alle personalissime visioni di Evasio Muraro in Scontro tempo (un capolavoro), Il mondo dimentica o Il maestro e la sua chitarra. Il tutto confezionato splendidamente in una ricca confezione al tempo minimale ed elegante, roba che non si può scaricare aggratis, anche perché se c’è qualcosa che insegna il filo dei discorsi sotterranei che scorre in Scontro tempo è che la bellezza ha un costo, se non altro nell’Infinito viaggio che ci vuole per cercarla e, per caso o per fortuna, trovarla. Qui c’è, ed è per questo che, almeno per quanto mi riguarda, Scontro tempo è il disco dell’anno. (Alessandra Longo)

giovedì 23 maggio 2013

Underfloor

Come racconta gianCarlo Onorato nel suo bellissimo Ex (Vololibero Edizioni) c’è stato un momento in cui Firenze era diventato l’epicentro dei nuovi suoni italiani. Non si tratta soltanto di dischi e passioni, di un legame dichiarato con certe espressioni anglosassoni (che gli Underfloor hanno assorbito e digerito a lungo), ma piuttosto del prendere atto della consapevolezza dei propri mezzi, di essere in grado di “formulare un progetto estetico e contenutistico, e in grado soprattutto di creare importanti collegamenti tra la musica e le altre discipline”. Parole che di adattano alla perfezione al quarto disco degli Underfloor, che vede un’importante maturazione del gruppo fiorentino, cresciuto in termini di arrangiamenti con la disposizione degli affascinanti archi di Giulia Nuti e un’esperta suddivisione tra le priorità delle canzoni e gli improvvisi sviluppi strumentali, dove le chitarre (in un bell’equilibrio tra elettriche e acustiche), viola e violino e le tastiere si intrecciano con una corposa struttura ritmica. Quattro è una concreta prova di coraggio, che non teme smentite nella bizzarra e intensa evoluzione di Stomp, nell’elegiaca Intorno a me, nel gusto sonoro (analogico) che ricorda quella Firenze, ipnotica e romantica, ormai uno stile (pop) a sé stante che gli Underfloor hanno saputo trasformare in una proposta personale e convincente. Compreso l’artwork di Quattro, semplice e accattivante, come capita di rado. (Lucia Jorio)

martedì 21 maggio 2013

Gnola Blues Band

Si può suonare in tutti i modi, dall’ultima bettola in provincia al più grande teatro d’Italia, eppure continuare a sviluppare un’insana passione per la musica, tale da superare anni e anni di intemperie. E’ quello che, imprevisti compresi nel prezzo, ha fatto Maurizio Glielmo per almeno vent’anni con la Gnola Blues Band. Vale la pena ricordare il disco che li riassume 20 Years On The Road, appunto: Gnola alias Maurizio Glielmo veniva da una lunga collaborazione con la Treves Blues Band dove aveva dato eccellente prova di sé alla chitarra (elettrica e slide in particolare) e da lì è partito con il suo album d’esordio, First Step, che ha qui l’onore di inaugurare la sarabanda. Il passaggio dall’amato vinile al digitale l’ha visto protagonista del suo disco più rappresentativo, Walkin’ Through The Shadows Of The Blues, che poi ha dato linfa vitale alle epiche performance della Gnola Blues Band. Un’idea la si può avere spulciando anche 20 Years On The Road (il titolo non è lì a caso) in cui molte delle passioni e delle influenze di Gnola vengono alla luce, dal Muddy Waters immortalato nel Muddy Slide Tribute al John Hiatt di Feels Like Rain, sulle cui note ha imparato a cantare. Oltre a essere un disco eccellente 20 Years On The Road è un bel riepilogo di una storia ancora tutta da raccontare che vedrà la Gnola Blues Band, magari in forme e dimensioni diverse, ancora a calcare i palchi, che per loro è come giocare in casa. (Stefano Hourria)

lunedì 20 maggio 2013

Ernesto de Pascale

L’inverno se l’è portato via ed è con una certa sorpresa che queste “sette canzoni mentre la città sta dormendo” approdano in questa primavera ricca di pioggia e di crepe e di niente. Seven Songs While The City Is Sleeping è abbastanza per ricordare che c’è sempre qualcosa, oltre all’assenza, oltre alla perdita. Ernesto de Pascale, un essere devoto anima e corpo alla musica, le aveva incise proprio così, una prima bozza, registrate da Guido Melis e destinate a essere rilette, riviste, ampliate. A trovare un loro destino, proprio mentre lui trovava il suo. Sono rimaste lì ad asciugare quel tanto che basta finché collaboratori e amici di sempre (da Giulia Nuti a Giovanni de Liguori) non le hanno liberate aggiungendoci lo stretto necessario per rendere Seven Songs While The City Is Sleeping qualcosa in più di un (bellissimo) ricordo, un vero e propriolabour of love”, una carezza gentile e discreta che non tiene conto delle imperfezioni, dell’immediatezza o della natura essenziale delle registrazioni, proprio perché riflette un momento, un lampo, un’illuminatio mentre intorno, ormai c’è solo quel Desert City Of The Heart cantato al mondo intero. L’eccezione, alla natura propria di Seven Songs While The City Is Sleeping, va cercata in fondo dove Wish You Well, con sontuoso finale fiatistico, scioglie le riserve e si lascia raccogliere come l’augurio di un grande appassionato. (Eddie Spinazzi)

domenica 19 maggio 2013

Virginiana Miller

Si vedeva già dall’esordio che i Virginiana Miller avevano le carti in regola per lasciare un segno. Le passioni iniziali arrivavano dal fascino della musica inglese, Cure e Smiths in testa, ma i Virginiana Miller hanno avuto da subito il coraggio di inventare qualcosa di nuovo, cercando di girare attorno alla canzone d’autore italiana con ironia e pure con un accento surrealista. Supportate da un suono efficace, semplice e a tratti trascinante: le chitarre ritmiche sembrano essere la spina dorsale di tutti i brani, non mancano tocchi piacevoli di tastiere ma quello che davvero sorprende è che il lavoro del gruppo, e della produzione, si è mosso tutto attorno alle canzoni dando a Gelaterie sconsacrate un tono di maturità abbastanza raro tra i gruppi italiani. Le canzoni dei Virginiana Miller sembrano piccole descrizioni felliniane anche se i panorami non sono quelli delle spiagge dell’Adriatico ma le litoranee di Livorno e dintorni: Gelaterie sconsacrate ha il sapore dei bagni marini mezzi abbandonati, delle scogliere sporche di petrolio, di qualche attimo fuggente preso in prestito ai locali del porto. Si sentono anche echi (sonori) di Tom Waits e dintorni, ma più in generale i Virginiana Miller sembrano una felice organizzazione tra la caotica follia di Piero Ciampi (loro ci mettono un po’ più di ordine) e un notevole gusto pop (se non proprio popolare) di fondo. Assolutamente da riscoprire. (Lucia Jorio)

giovedì 16 maggio 2013

Osvaldo Ardenghi

Trent’anni fa Osvaldo Ardenghi imperversava nelle valli bergamasche lanciando fuoco e fiamme dalla sua Stratocaster che evocava, una sera sì e l’altra pure, il fantasma di Duane Allman. A differenza di oggi, la sfida non era trovare un posto dove suonare, ma uscirne vivi e da lì, archiviate le glorie della Moss Band, Osvaldo Ardenghi ha scelto mille peripezie per continuare a strapazzare le sue chitarre che l’hanno portato a collaborare tanto con Enzo Jannacci quando con i Rusties di Marco Grompi (poi suo complice all’armonica e ai cori). La sfida più importante, alla fine, è quella con le proprie radici e Osvaldo Ardenghi l’ha affrontata colorando i fiumi, la ghiaia, i ricordi dell’infanzia, la serie B dell’Atalanta, le piazze e gli orti, tutto un piccolo mondo antico che ancora (e per fortuna) resiste all’incuria, con i suoni di una rock’n’roll band ed è così che una delle più intime dediche che si siano sentite al paesaggio (bergamasco e non solo) Drec al cör, suona come una canzone dei Crazy Horse (compreso il finale elettrico) o la storia di un good old boy diventa, sì, Ü brao scet (un bravo ragazzo, nella traduzione corretta) ma mantiene le sue prerogative country & western. Il dialetto delle valli si presta alle scorribande elettriche di Osvaldo Ardenghi (La dea sembra persino un riff degli X) e per uno che va in giro con l’autografo di Warren Haynes sulla chitarra arrivare Drec al cör è il minimo che si merita. (Stefano Hourria)

Milena Piazzoli

In mezzo ai tormenti di rock’n’roll band, cantautori, ensemble più o meno ispirati, è stata una vera e propria sorpresa scoprire le belle atmosfere di Change di Milena Piazzoli. Cantante, dalla squillante voce tenorile, chitarrista e all’occasione anche pianista e percussionista, Milena Piazzoli frequenta con convinzione e senza paura territori piuttosto distanti tra loro, come le canzoni degli chansonnier (bella la versione di Eau à la bouche di Serge Gainsbourg) e Parchfarm Man, uno scorticatissimo blues di Bukka White, per dire soltanto due degli estremi sfiorati da Change. Ci vuole personalità per attraversare tanto spazio e Milena Piazzoli la rivela anche nel suo personale songwriting che, pur sottolineando alcune influenze abbastanza precise (probabilmente Joni Mitchell su tutte) ha caratteristiche peculiari molto interessanti, e se serve un esempio, basta ascoltare Sensations per poi lasciarsi avvolgere dalla natura di Change. Anche perché Milena Piazzoli con l’aiuto di Max Prandi e Vincenzo Giacalone alle chitarre nonché Alessandro Porro in sede di produzione imbastisce un suono che ruota attorno alla sua chitarra acustica (e alla voce, naturalmente) ma che ha molti spunti particolari, compresa la fisarmonica di Mariangela Tandoi in Il ne marche e Morenica. Change suona fresco, acuto, intelligente e molto personale ed essendo un esordio, è di sicuro un bel modo per cominciare. (Marco Denti)

mercoledì 15 maggio 2013

Francesco Piu

Solo un piccolo promemoria per ricordare come Ma-moo tones abbia rappresentato un singolare turning point per Francesco Piu. Disco dopo disco, si è ritagliato uno spazio di tutto rispetto tra gli appassionati di blues, e non solo, perché ha allargato i suoi orizzonti in modo repentino ed esponenziale. Di questa evoluzione Ma-moo tones è il simbolo più evidente: frutto di un lavoro di ricerca che si nutre della sua notevole abilità tecnica alla chitarra (e ad altri gingilli) per incrociare le radici della musica afroamericane con le molteplici trasformazioni seguite nel corso di un paio di secoli. Si va dall’arcaico Blind Willie Johnson a Jimi Hendrix, anche se il dato più interessante di Ma-moo tones è il salto di qualità della scrittura di Francesco Piu (spesso in collaborazione con Daniele Tenca), protagonista nella stragrande maggioranza delle canzoni. Le composizioni di Ma-moo tones, in particolare Overdose Of Sorrow e Blind Track, due tracce magnifiche, si accostano con pari dignità a Soul Of A Man e Third From The Sun e segnalano anche un particolare progresso di Francesco Piu in virtù di cantante e interprete. Un segno netto di maturità, reso ancora più evidente dalla produzione di Eric Bibb che ha reso Ma-moo tones un disco le cui ambizioni andavano ben oltre i limitati confini nazionali e che ha meritato tutti i riconoscimenti ottenuti, nessuno escluso. Rimaniamo in attesa del bis. (Stefano Hourria)

Smokey Fingers

E’ sempre sorprendente scoprire come alcuni stili, spesso riconducili a particolari zone geografiche o a sensibili variazioni sul tema più esplicito del rock’n’roll si siano propagate dall’America e abbiano trovato persino dalle nostre parti espressioni appassionate e coinvolgenti, e fin qui è abbastanza naturale, ma anche molto solide e congruenti. Per dire il nucleo primordiale degli Smokey Fingers nasce da una costola di una rock’n’roll band sorta in omaggio ai Lynyrd Skynyrd, da cui provenivano il batterista Daniele Vacchini e il chitarrista Diego Dragoni. Le passioni per i “southern accents”, dagli Allman Brothers ai Black Crowes gli hanno fatto trovare altri due compagni di viaggio (Luca Paterniti e Fabrizio Costa) con i quali, pur mantenendo tutti i collegamenti e le connessioni con le originali passioni hanno, hanno dato vita a una versione originale di quel sound e alle canzoni che prima sono confluite nell’EP omonimo, Smokey Fingers, e poi in Columbus Way. Le “dita fumanti” sono protagoniste in assoluto nel senso che Columbus Way è una dimostrazione di forza non indifferente, frutto di una giovane rock’n’roll band che segue al meglio istinto ed energia, che al momento è tutto quello che serve. Se poi gli Smokey Fingers non sono americani, è tutto da discutere visto che vengono da Lodi, che è provincia italiana, ma soprattutto una canzone dei Creedence Clearwater Revival. (Eddie Spinazzi)

venerdì 10 maggio 2013

Nagaila

E’ sicuro che un Viaggio di ritorno come quello di Nagaila abbia bisogno di molto più spazio per esprimersi che il ristretto, complicato e autoreferente panorama italiano. Talento vocale indiscutibile, non soltanto per educazione ed estensione, Nagaila segue con una spontanea naturalezza anche un’innata vocazione da interprete (che, per inciso, ci piacerebbe vedere in modo più ampio e diffuso) nonché alla scrittura. Una musicista poliedrica che nel suo Viaggio di ritorno ha avuto la fortuna di incontrare altri due o tre musicisti in grado di dialogare, strada facendo con lei. Il primo è Fidel Fogaroli, eclettico ed elegantissimo tastierista che è il vero alter ego di Nagaila, aiutato poi in sede ritmica dal raffinato percussionista Matteo Milesi. Al trio così composto da tempo si affianca il tecnico del suono Mauro Galbiati con il quale hanno condiviso la produzione di Viaggio di ritorno. Con ogni ragione perché le trame avvolgenti in cui si muove la voce di Nagaila si dipanano dall’interplay di Fidel Fogaroli e Matteo Milesi e dalle proiezioni elettroniche che creano un sound originale, evoluto e per niente ostico all’ascolto. La forma è sospesa tra la canzone d’autore, la ricerca e la sperimentazione, una sottile e appassionata vena jazzistica in sottofondo e una predilezione per la pop song nella migliore delle accezioni. Mettete Nagaila tra Peter Gabriel e i Radiohead e si troverà a suo agio. (Lucia Jorio)

giovedì 9 maggio 2013

Paolo Bonfanti

Sarebbe ora che qualcuno consegnasse a Paolo Bonfanti un riconoscimento, una targa, un vitalizio, essendo uno dei musicisti italiani che possono vantare una gamma affascinante di soluzioni e di invenzioni, nonché di linguaggi. Gran chitarrista (basta sentire l’introduzione di Dark And Lonesome Night per farsene una ragione), raffinato ricercatore e appassionato cantante, Paolo Bonfanti non ha avuto alcun timore, nel corso degli anni, a confrontarsi con musicisti di livello assoluto, primo tra tutti Roy Rogers, e quel taglio internazionale è diventato evidente con Takin’ A Break, forse il suo disco più personale e immediato, frutto della naturalezza con cui i musicisti che lo seguono da tempo nelle sue peripezie (Roberto Bongianino alla fisarmonica e il solidissimo team ritmico di Alessandro Pelle alla batteria e Stefano Risso al basso) e di un songwriting meritevole di ogni possibile considerazione. Molto, molto rock’n’roll, e su questo non si discute: gli esperimenti etnologici, il dialetto, il cantautorato (tutti campi in cui Paolo Bonfanti si è destreggiato senza esitazioni) qui sono rimandati. Le pause sono riservate alle ballate (Nowhere Fast, splendida), ai blues (la torbida Between Me And You) mentre la slide di Paolo Bonfanti imperversa in tutto Takin’ A Break, compreso l’omaggio nascosto nella turbolenta Isolation Row. Piccolo gioco di prestigio che da solo gli vale il Grammy di HighwayItaly. (Alessandra Longo)

mercoledì 8 maggio 2013

Luca Milani

In attesa del suo nuovo disco, Lost For Rock’n’Roll, previsto per il prossimo settembre, vale la pena ricordare che Luca Milani giusto un paio d’anni fa ha inciso uno dei dischi italiani più intensi degli ultimi anni. Sin Train è stata una vera sorpresa anche per chi aveva lo aveva seguito prima nell’avventura, tutta italiana, dei File e poi con il nuovo corso inaugurato da Scars And Tattoos. Un sound asciutto, essenziale, con una produzione molto scarna eppure perfetta per le malinconiche ballate e la personalissima voce di Luca Milani. In Sin Train più ispirato che mai: Bandit, Jenny Stone, la tesissima Snow In Milan o l’ukulele di A Place To Stay Bright raccontavano allora come oggi di un songwriter capace di affrancarsi dai propri sacrosanti modelli di riferimento (peraltro, molto bella la sua versione dal vivo di No Surrender) e di trovarsi un’identità ben definita. Alcuni passaggi di Sin Train, come Old August Sun o Letters From Prague non hanno nulla da invidiare ai colleghi inglesi o americani e l’uso di quella lingua, per uno “lost for rock’n’roll” (appunto) risulta alla fine molto più spontaneo e (in fondo) anche logico. Così quello che colpisce di Sin Train, oltre alla qualità delle canzoni e alle interpretazioni di Luca Milani, è il coraggio di un suono con una visione, un senso, un’idea che si adatta allo scopo e funziona alla perfezione, per cui ci sembra lecito aspettarsi il bis. (Stefano Hourria)

Furio Y La Santa Muerte

E’ un particolare “family affair” questa repentina apparizione di Furio Y La Santa Muerte, un trio di rispetabilissimi ceffi che oltre a Dennis Ercole al basso vede Furio e Paolo Ganz all’opera. Il primo (figlio) maltratta batteria e percussioni con energia ed eleganza, buon sangue non mente. Il secondo (padre) ha una carriera lunga così nelle notti veneziane (e oltre) come armonicista (soprattutto), cantante e chitarrista nonché scrittore (consiglio caldamente, tra gli altri, Armonicomio e Venice Rock’n’Roll, Fernandel). C’è la sua verve dietro le cinque canzoni radunate in Furio Y La Santa Muerte, una meteora fiammeggiante che usa inglese, spagnolo, italiano e un po’ di dialetto (nella bonus track Un mondo roverso ovvero Venice Rock’n’Roll) per esplorare mondi e tempi che profumano di grandi passioni: i deliziosi fiati di Andrea Barin (tromba) e Paolo Corposanto (sassofono) in All In A Glance ricordano certi ancheggiamenti di Willy De Ville e nella caotica Wildcat trasformano Furio Y La Santa Muerte in un’orchestrina mariachi che suona laggiù da qualche parte sul border. Del resto Es Una Noche De Viento, come spiegano altrove, e se c’è qualcosa da aspettarsi, oltre all’inevitabile Coffee Grounds Blues, è proprio la baraonda finale di Un mondo roverso, una confessione spontanea e genunina in Furio Y La Santa Muerte ammettono: non siamo i Beatles e nemmeno i Rolling Stones, viviamo in una cantina, e forse è meglio così. (Alessandra Longo)

martedì 7 maggio 2013

Lowlands

C’è un secolo di Woody Guthrie in quello bellissimo omaggio che gli hanno regalato i Lowlands, allargati da una nutrita schiera di amici raccolti qui e là in studi di registrazione improvvisati, garage, cantine, cucine. Le estemporanee location e la variopinta natura della comitiva riunita attorno ai Lowlands non devono indurre alla tentazione di considerare Better World Coming frutto del caso e dell’occasione perché i numerosi talenti guidati da Edward Abbiati hanno colto lo spirito come una piccola comunità, con le stesse intenzioni e soprattutto condividendo quella che è l’unica, vera di Woody Guthrie, ovvero il suo songbook. L’esempio più evidente è la corale versione di Plane Wreck At Los Gatos (Deportee) dove cantano e suonano più o meno tutti gli invitati, ma ho un debole per quella More Pretty Girls rivista con i toni baritonali cari a Tom Waits. Le altre interpretazioni di Better World Coming di sicuro non sono da meno e il coraggio e l’intemperanza con cui i Lowlands hanno affrontato Woody Guthrie ricorda il lavoro fatto da Billy Bragg con i Wilco per i due volumi di Mermaid Avenue. L’altisonante paragone è voluto e dovuto perché Better World Coming merita il giusto riconoscimento per come è stato ideato, vissuto e suonato e soprattutto per come i Lowlands hanno saputo rileggere la figura di Woody Guthrie in libertà, senza patemi e pregiudizi. Da scoprire e riscoprire, è un gioiello che resisterà nel tempo. (Eddie Spinazzi)

lunedì 6 maggio 2013

Daniele Ronda

Era in qualche modo inevitabile che il viaggio di Daniele Ronda andasse a cercare qualcosa sul confine, essendo tutta la sua storia qualcosa che intreccia mondi diversi e spesso distanti tra loro. Ed è stato altrettanto naturale che una specie di approdo Daniele Ronda l’abbia trovato sulle rive del Po, tornando a casa. La sirena del Po, uscito sul finire dell’anno scorso, si è infatti sviluppato sulla strada strada, immortalando scene di vita quotidiana in canzoni come l’esuberante e ironica Al Rolex o raccogliendo antiche tradizioni e leggende sulle rive del fiume, come succede con l’affascinante storia raccontata con La sirena del Po. Nella metamorfosi di Daniele Ronda che, passo dopo passo, con i piedi per terra, nella sua terra, si avvia a diventare una delle novità più interessanti della musica italiana degli ultimi anni, ha questa capacità di raccontare le minuzie della realtà, le faticose e malinconiche ballate di un’umanità distratta e difficile, con la gioiosa fragranza di un’allegria contagiosa, che induce a ballare e a divertirsi, senza dimenticare cosa c’è là fuori. La sirena del Po è un piccolo mondo antico dove l’Irlanda non è così lontana dall’Emilia e in cui ogni linguaggio, il dialetto, l’italiano, la birra è ammesso e consentito: l’importante è capirsi e divertirsi, sembra dire, e se non basta il disco lo troverete in ogni angolo possibile quest’estate e dal vivo è anche più genuino e ruspante. (Lucia Jorio)

domenica 5 maggio 2013

Daniele Tenca

Non c’è dubbio che Wake Up Nation segni un bel salto di qualità per Daniele Tenca, passaggio che assume ancora più valore se si pensa che arriva dopo quel Blues For The Working Class ha rivelato una voce nuova, coraggiosa, intensa capace di leggere un vocabolario, musicale e letterale, anglosassone e di collocarlo in una solida realtà nostrana. Un sognatore con i piedi ben saldi per terra, che vede nel rock’n’roll, la forma ideale per veicolare storie, impressioni ed emozioni concrete e attuali: Wake Up Nation è una sintesi coraggiosa ed entusiasmante che carica su un bel treno di chitarre, tutte intrise di blues, una vagonata di belle canzoni, sentite, accurate, pungenti. Questo è quello che ci si aspetta da un songwriter e/o da una musicista che vive il blues del ventunesimo secolo, per dirlo con Steve Earle (un personaggio che non deve essere sconosciuto a Daniele Tenca). Di suo, poi, Wake Up Nation ci mette una ricerca sonora che lo distingue in modo nitido da Blues For The Working Class, pur mantenendo un’indiscutibile coerenza di fondo. In Wake Up Nation Daniele Tenca si concede qualche apertura in più, sposando soluzioni inusuali e originali nel contesto di un suono che ha, sì, uno spirito blues (a tratti persino molto abrasivo) ma non si nega nemmeno un tuffo Into The Wild con la bella, pertinente e accorata versione di Society. Finale adeguato per uno dei dischi (italiani) più belli di quest’anno. (Eddie Spinazzi)

venerdì 3 maggio 2013

Dada Tra

Il disco d’esordio dei Dada Tra, gruppo che si è sviluppato “senza troppa fretta e tensione ossessiva” (e direi che va bene così) attorno Camillo Achilli (basso), Stefano Battiston (voce, chitarra acustica, tastiere), Corrado Campanella (chitarre), Stefano Gilardone (batteria) e infine Gege Picollo (chitarre) ha almeno un paio di risvolti da segnalare. Dal punto di vista musicale i Dada Tra sembrano preferire certe influenze anglosassoni, con una vocazione spontanea per l’intreccio delle chitarre acustiche ed elettriche che spesso diventa la spina dorsale di lunghe intro o piccole suite in coda alle canzoni (basta sentire il finale elettrico di The Golden Ass). Le sfumature psichedeliche, e in certi passaggi persino progressive, sono fisiologiche e i Dada Tra mostrano di conoscere e maneggiare gli argomenti (nonché gli strumenti) con un’inusuale destrezza. Le atmosfere evocate, nelle canzoni in inglese, non hanno nulla da invidiare agli originali e ai modelli di riferimento che appaiono ben digeriti e assimilati. E’ la parte in cui sembrano più naturali e a loro agio, mentre nelle canzoni cantate in italiano la sintesi non è altrimenti felice. Non è detto che le due forme non possano convivere: è una questione di piccole sfumature, di armonizzare qualche passaggio, in fondo di progredire nell’evoluzione che questo disco ha appena inaugurato. Niente che i Dada Tra non possano permettersi da qui in poi. (Stefano Hourria)

giovedì 2 maggio 2013

Psychic Twins

Massimo Monti, autore delle parole di Crossings, e Fabrizio Friggione, cantante, chitarrista nonché produttore, due gemelli legati dalla musica più che dal DNA. In effetti, guardando la matematica sarebbero pure divisi da due o tre generazioni, ma questo non conta molto quando l’incontro è alimentato dalla comune passione per la musica. Una collaborazione che li ha portati, oltre a coagulare un nutrito gruppo di validissimi strumentisti (tra cui Paolo Legramandi al basso, da anni con Davide Van De Sfroos e ora nella rinnovata Gnola Blues Band), a proporre una selezione di otto canzoni suonate con energia ed entusiasmo e anche quel po’ di stile da rendere uniforme e concreta quella che sembra un’idea estemporanea. La qualità stessa delle prestazioni nonché delle incisioni convoglia l’attenzione a un altro livello, più alto. In realtà gli Psychic Twins sono molto più efficienti di quanto sembrano o vogliano apparire: Crossings matura le sue peculiari caratteristiche tra derivazioni springsteeniane (gli indizi si trovano già sulla copertina della bella e semplice confezione in bianco e nero), molto blues travestito da rock’n’roll (e viceversa) e, tutto sommato, in un lungo viaggio notturno dove la musica ha un ruolo predominante nel definire tutto un mondo e le sue atmosfere. Per gli Psychic Twins, dicono nelle note di Crossings, si tratta di un linguaggio universale, è già grande abbastanza per loro due e offre porte aperteper chi vuole entrarci. Avanti, c’è spazio. (Alessandra Longo)