mercoledì 28 maggio 2014

The Boogie Ramblers

Una vocazione totale, incondizionata, dichiarata per il più puro e semplice rock’n’roll, quello che prende forma con Chuck Berry e arriva fino a pub londinesi dei Dr. Feelgood e dei Nine Below Zero: si potrebbe dire che Let It Rock! contiene già tutto nel suo titolo perché i Boogie Ramblers macinano accordi e ritmo con la sfrenata energia di una locomotiva in corsa, senza perdere un briciolo dell’entusiasmo degli appassionati. Non si inventano nulla, a parte un Harp Attack micidiale (e che non ha bisogno di traduzione), e pescano a piene mani nel repertorio del principale ispiratore che lo è dei Boogie Ramblers come lo è stato degli Stones (Come On). Alle proprietà strumentali e alle tonnellate di feeling, i Boogie Ramblers aggiungono anche il gusto raffinato e generoso di chi è capace di andare a riscoprire anche il songbook di un piccolo, grande loser del rock’n’roll, Ben Vaughn, di cui rileggono I Dig Your Wig e Dressed In Black, che era anche il titolo del suo disco migliore. Ottimi e abbondanti su tutti i fronti, i Boogie Ramblers sono una splendida realtà del rock’n’roll nella provincia italiana e come ha detto lo stesso Chuck Berry hanno un gusto e un senso per quello che suonano “semplicemente eccellenti”. E’ consigliato l’ascolto ad alto volume, non sono previste controindicazioni di sorta se non una piacevole euforia, specie se accompagnate l’ascolto di Let It Rock! con un paio di birre, che ci stanno tutte. (Eddie Spinazzi)

venerdì 23 maggio 2014

Phono Emergency Tool

C’è molto Regno Unito nel sound, energico e convincente, dei Phono Emergency Tool: un’idea di canzone che parte da una forma di pop piuttosto evoluta e si lascia aperta una gamma non indifferente di soluzioni. Il gruppo bolognese è un singolare trio composto dai fratelli Andrea e Sandro Sgarzi alla chitarra e al basso e da Marco Lama alla batteria, anche si premurano di dire che in qualche modo “sono tutti chitarristi, bassisti e batteristi”. La precisazione non è formale: Phono Emergency Tool sono un triangolo ritmico molto spigoloso dove le chitarre schizzano feroci e inusuali (splendide in Blow Moulding Machine) eppure sempre all’interno di coordinate che le riconducono alla forma della canzone. In questo i Phono Emergency Tool hanno uno strumento in più, così come nell’ottima resa della registrazione che li porta a un livello di qualità assolutamente internazionale. Anche perché la compatezza del suono (sempre notevole, da Floating So Fast a Heyday) non toglie nulla alle proprietà e all’atmosfera delle canzoni che fanno di Get The PET un esordio solidissimo, squillante, a tratti anche sorprendente per la disinvoltura, l’essenzialità e la maturità con cui i Phono Emergency Tool si presentano. Se avete qualche dubbio cominciate da A Lower Life, una canzone che sboccia proprio all’incrocio tra ballata e rumore che Kurt Cobain e Michael Stipe hanno coltivato per anni. Non erano inglesi, okay, e nemmeno i Phono Emergency Tool lo sono, ma non temono paragoni, già da adesso. (Marco Denti)

martedì 20 maggio 2014

Evasio Muraro

A un anno dall’uscita di Scontro tempo, senza dubbio uno dei dischi più belli del 2013, vale la pena ripescare l’inizio del nuovo corso di Evasio Muraro, quel Canzoni di uomini di latta con cui ha riavviato una carriera solista che, disco dopo disco, continua a sorprenderci. Sono convinta che in Scontro tempo ci sia molto più Canzoni per uomini di latta che O tutto o l’amore: Evasio Muraro è un musicista troppo poliedrico per nascondersi dietro una certa uniformità sonora ed è troppo innamorato del rock’n’roll per restare incastrato in una sola parentesi acustica. Se si fruga un po’ dentro le Canzoni per uomini di latta, si trovano già i germogli che poi fioriranno in Scontro tempo: alcune derive ritmiche, certe divagazioni jazzistiche, tutto l’immaginario lirico condensato da Miraggio in poi, la vocazione per suoni eccentrici e ricercati. Canzoni per uomini di latta è ancora oggi un disco molto denso ed evoluto e, riascoltandolo alla luce di Scontro tempo, mostra quanto fossero coerenti certe intuizioni. Merita un cenno anche la parte iconografica: Canzoni per uomini di latta non è il superlativo oggetto di design confezionato per Scontro tempo, ma già allora era chiaro che Evasio Muraro non si lascia costringere nei cliché e negli standard e anche nel formato banalotto del compact disc riesce a propinarci la sua particolarissima visione artistica. Un disco da riscoprire, a partire proprio da Distratto, piccolo, grande inno dei nostri (miseri) tempi. (Lucia Jorio)

mercoledì 23 aprile 2014

Stephane TV

E’ uno strano oggetto non identificato, questo Lullabirds degli Stephane TV, frutto della liquidità del mondo digitale, dove tutto può succedere, e in genere succede. Non è il loro disco d’esordio (e restiamo ancora in attesa), anche se raccoglie i frutti dispersi del work in progress che li ha portati a incidere e a pubblicare tre diversi EP nonché un paio di interpretazioni d’autore, Nick Drake e gli Stones (giusto per ricordare di cosa stiamo parlando) nei tributi promossi dalla benemerita Martiné Records. Non è un’antologia perché è logico pensare che gli Stephane TV abbiamo più futuro davanti che passato alle spalle, eppure rimane a oggi la loro sequenza musicale più rappresentativa e coerente. Qualcosa dovrà pur essere, Lullabirds, e allora scorrendo le quattordici canzoni allineate giusto sulla durata di un’ora (secondo più, secondo meno) è facile scoprire che si tratta della migliore dimostrazione possibile delle qualità degli Stephane TV. Lullabirds è la conferma che sono capaci, anche sulla lunga distanza, di regalare una nutrita varietà di atmosfere (che devono molto alle loro passioni cinematografiche), sempre costruite da un’architettura strumentale insolita e affascinante. Chi li ha seguiti EP dopo EP, (e ha fatto bene) ritroverà un sacco di piccole sorprese sonore, tutte intatte anche perché le tracce sono state rimasterizzate per l’occasione. Chi incontra qui per la prima volta gli Stephane TV, è facile che faccia una gran bella scoperta. (Eddie Spinazzi)

martedì 1 aprile 2014

Daniele Ronda

Non è la prima rivoluzione a cui Daniele Ronda si applica con il solito entusiasmo. Aveva già lasciato la canzone leggera italiana per intrufolarsi nel mondo curioso del dialetto e della tradizione, in cui si è districato con una destrezza tutta sua. A riprova, La sirena del Po è ancora lì da sentire, visto che è approdata sulle rive del fiume poco più di un anno fa. Nel frattempo Daniele Ronda, oltre a macinare chilometri su chilometri con un’intensità degna dei grandi artisti, ha scelto ancora di giocarsi il futuro tirando la monetina, senza guardare troppo a cosa fanno il fuoco e il tempo, due elementi che consumano senza rimedio. Ha rimesso mano al Folklub (che non è mai stato così solido) e, sorpresa, tra la via Emilia e il West ha schiacciato l’accelleratore proprio in quest’ultima direzione. La rivoluzione, più che per l’universo lirico di Daniele Ronda, che si va delineando sempre con maggiore precisione (basta concedergli Un attimo, per capirlo) si mette il gioco sollevando una gran polvere di suoni irlandesi e americani, con alcune inedite sferzate di rock’n’roll, che è sempre meglio della rivoluzione. Non si tratta proprio di una novità, perché chi l’ha seguito dal vivo nei suoi coloriti happening sa che il Folklub non bada a spese, ma dentro La rivoluzione è evidente che sta crescendo un capitano capace di cambiare tutto, senza cambiare niente, che è poi la prerogativa principale per diventare grandi. (Marco Denti)

martedì 18 marzo 2014

gianCarlo Onorato

Artista poliedrico, capace di passare con colta disinvoltura dalla poesia alla pittura, dalla prosa (bellissimo il suo racconto autobiografico in ex) alla musica, gianCarlo Onorato ha trovato con Sangue bianco il suo disco più maturo e intenso. La lunga e laboriosa gestazione, dovuta ad un certosino lavoro di precisione attorno ai suoni e alle canzoni. Cinque diversi studi di registrazione, una moltitudine di musicisti, un ordito di idee e di arrangiamenti affascinante nella sua complessità rendono Sangue bianco una svolta importante nel modo di sentire e interpretare le canzoni in italiano. Non c’è nulla in comune con la banalità radiofonica o con le semplificazioni melodiche: gianCarlo Onorato è un artista che, fin dagli esordi, predilige scavare in profondità, cercando soluzioni liriche ed estetiche certo non immediate, ma sempre piene di significati e di emozioni. Sangue bianco, da questo punto di vista, è esemplare nel mostrare tutti i fuochi d’artificio di cui dispone gianCarlo Onorato: canzoni costruite attorno a un linguaggio limato parola per parola e verso dopo verso; suoni e arrangiamenti che, pur sempre in debito (come è giusto che sia) con le sue passioni musicali anglosassoni, hanno ormai una netta e distinta personalità; e, infine, quello che è più imporante, una visione complessiva chiara e precisa. Dalla minimale copertina all’ultima nota, Sangue bianco è un mondo di bellezza a parte, degno di una grande e unico artista, peraltro ormai pronto a dargli un degno seguito. (Lucia Jorio)

sabato 15 marzo 2014

Michele Anelli & Chemako

Michele Anelli è stato un pioniere sempre in anticipo sui tempi. Aveva capito la lezione springsteeniana, i temi e le storie più che la musica, prima di tutti e ne aveva riproposto con i Groovers una sua personale e convincente versione. Ha cambiato rotta, non senza un certo coraggio, ispirato dalle forme mutevoli dei Wilco e nello stesso tempo ha lavorato a lungo sulle canzoni popolari italiane, ancora una volta, qualche anno prima che diventassero d’obbligo. Quello che gli mancava era un passo che rispondesse al suo profilo e l’ha fatto collaborando con i Chemako: il sound del disco è loro, solido, compatto, elettrico, essenziale, senza fronzoli. La storia, le storie che ci sono dentro è quanto di più personale abbia prodotto Michele Anelli: dall’intensa Ballata contro il tempo a Sono sempre nei guai, una pop song più o meno perfetta, tutto lo spettro delle sue perlustrazioni sonore è ben rappresentato dall’uniforme interpretazione dei Chemako e dall’indomita volontà di mettersi di nuovo in gioco. Con canzoni che sono sentiti ritagli autobiografici (La strada di mio padre), suggestive istantanee (Lettera dal finestrino) o frammenti di vocabolari, sempre attuali, ormai digeriti a lungo (Resisterò, Uomini e polvere, Sparare cantando). Al di là dei temi, le canzoni s’incastrano una nell’altra nel definire il nuovo volto di un protagonista della musica italiana che è stato capace di non restare fermo e di rinnovarsi in modo radicale, anche dopo anni e anni di incessanti tentativi e ricerche. Non ne esistono tanti altri. (Marco Denti)

venerdì 14 marzo 2014

Andrea Parodi

Soldati è stato un un disco la cui gestazione è cominciata in modo singolare, visto che gran parte delle canzoni sono nate dal rapporto di questo giovane e promettente cantautore con la nonna, la quale ha offerto, attraverso i racconti di vita vissuta, l’idea centrale che è alla base del disco, ovvero quella di “soldati”, la cui guerra è la propria vita quotidiana. Un’idea forte e coraggiosa che Andrea Parodi ha voluto condividere con uno stuolo impressionante di ospiti e collaboratori, convocati come se il disco fosse una rappresentazione teatrale o un set cinematografico, per cui ogni canzone necessitava di particolari interpreti e caratteri. Tra gli altri, vanno ricordati i marchigiani The Gang, la milanese Laura Fedele, il collega e amico fiorentino Massimiliano Larocca, ma anche l’americano Jono Manson e l’argentina Suni Paz coinvolti a vario titolo nell’elaborata costruzione delle strutture sonore del disco. Sarebbe riduttivo però considerare Andrea Parodi soltanto il regista di un articolato complesso di collaborazioni e ospiti: la sua voce e la sua chitarra, ma soprattutto la sua sconfinata passione per il rock’n’roll e nello stesso tempo per la canzone d’autore, solo gli elementi che tessono e organizzano una trama minuziosa e variopinta, dove le canzoni costituiscono i tasselli di una visione molto più ampia. Raro esempio di una visione condivisa e aperta alle sorprese, Soldati è un piccolo gioiello che merita di essere riscoperto perché ha segnato una bella deviazione nella storia della musica italiana. (Stefano Hourria)

giovedì 6 marzo 2014

Little Angel & The Bonecrashers

La presentazione ufficiale di Little Angel & The Bonecrashers non è tanto da cercare nell’insieme di J.A.B., peraltro un altro ottimo esempio di quanto il rock’n’roll sia stato compreso anche in quel sonnolento e ingrigito paese quale è l’Italia, quanto nella sincera Just Another Band (e a questo livello la sincerità è tutto). Basta una canzone per capirsi: Little Angel & The Bonecrashers macinano rock’n’roll e country & western  con una continua sovrapposizione delle voci e delle chitarre e con un bello spirito di gruppo, sempre attento ai livelli della birra non meno dei volumi degli amplificatori. Non a caso, come se le chitarre non bastassero mai (ne hanno ben tre in squadra), per finire J.A.B. hanno convocato anche Davide Buffoli, un altro rock’n’roll heart come ce ne sono pochi in Italia. Infine, li distingue un tocco particolare nel songwriting che da Harry’s Wife a Poor John ha sempre un certo riguardo per il dettaglio della canzone, cosa che ad occhio e croce hanno imparato tanto da Johnny Cash quanto dal Bruce Springsteen di The River. Un’altra importante fonte d’ispirazione deve essere Neil Young e infatti Troubles Everyday suona massiccia, rumorosa e convinta come se l’avessero pescata da Ragged Glory. Volendo, una conclusione che si stacca un po’ dal resto di J.A.B., tracciando un confine per l’immediato e mandando un segnale per il futuro. Come dire: okay, siamo solo un’altra rock’n’roll band sulla strada, ma intanto ci facciamo sentire più che possiamo. Non c’è altro modo. (Marco Denti)

giovedì 20 febbraio 2014

Circo Fantasma

A vent'anni giusti dall'uscita di I Knew Buffalo Bill, estemporaneo incontro tra un pugno di musicisti fieramente undeground (Jeremy Gluck dei Barracudas, Rowland S. Howard dei Birthday Party, Nikki Sudden ed Epic Soundtracks di Swell Maps e Jacobites, e Jeffrey Lee Pierce dei Gun Club) i veterani del Circo Fantasma gli hanno reso omaggio mutuandone la libera intenzione e lo spirito molto informale e molto blues. Così hano ripreso una quindici di canzoni, molte delle quali dal songbook del grande e folle Jeffrey Lee Pierce (da cui l'assonanza del titolo) e le hanno incise con una nutrita schiera di musicisti italiani e internazionali tra cui spiccano Steve Wynn e Nikki Sudden (che a suo tempo aveva partecipato anche a I Knew Buffalo Bill). Il lavoro oltre ad essere musicalmente impeccabile, nel senso di molto fedele all'anima originaria, selvatica e spiritata, di I Knew Buffalo Bill. Molte le canzoni che spiccano da Bad America a My Dreams, da River Of No Return a Ill Wind, che tradiscono le passioni teatrali e cinematografiche del Circo Fantasma e dei loro numerosi ospiti fino alla conclusiva My Heroine, unico inedito e originale (peraltro pregevole) che ha il compito e l'onore di chiudere uno dei dischi di rock'n'roll più interessanti ed importanti usciti negli ultimi anni in Italia, e non solo. Per la ricercatezza, per l'arguzia, per l'intensità e anche per quell'ormai più unico che raro spirito che lo anima. Un disco che ha anticipato i gran lavori di The Jeffrey Lee Pierce Sessions Project, motivo in più, oggi, per essere riscoperto. (Eddie Spinazzi)

martedì 18 febbraio 2014

Bluedust

Con una padronanza invidiabile nei rispettivi strumenti e una conoscenza enciclopedica della musica americana, nei Bluedust sono confluite cinque personalità con un bagaglio di esperienza che ha trovato in Blast From The Past una sua speciale definizione. Perry Meroni, voce e chitarra, se non snocciola i tradizionali del bluegrass potrebbe andare avanti per giorni a cantare Hank Williams ed Elvis. Dino Barbè al banjo conduce le danze sulle orme di Earl Scruggs ma con un drive che ha sempre un accento un po’ rock’n’roll, avendo frequentato a lungo quell’ambiente. Josh Villa alla voce e al mandolino e Tony Spezzano alla chitarra e alla voce, entrambi particolarmente brillanti, offrono i migliori contrappunti alle interpretazioni dei Bluedust, ben sostenuti dal contrabbasso di Marco Centemeri, che non perde un colpo che sia uno, neanche a sparargli. Senza discostarsi troppo dagli standard, il bluegrass è il bluegrass, le regole sono le regole, i Bluedust riescono però a infondere alle loro variazioni sul tema quel pizzico di originalità da far sì che Blast From The Past sia godibilissimo dall’inizio alla fine anche se il suo destino dichiarato è quello di ottenere un lasciapassare per farsi sentire dal vivo, dove lo spettacolo è garantito. Dall’East Virginia Blues a My Little Girl In Tennessee, Blast From The Past è un viaggio a senso unico lungo le praterie e le radici del bluegrass, ma attenzione alla versione di That’s All Right Mama, c’è sempre il più famoso fantasma d’America in agguato. (Marco Denti)

domenica 16 febbraio 2014

Jama

L’esperienza variopinta della copertina di Soma si riflette dettaglio per dettaglio nelle scoppiettanti forme sonore proposte da Jama alias Gianmario Ferrario. A tratti sembra di risentire Back To The Roots di John Mayall, dal vivo ricorda moltissimo il primo Springsteen quello più disordinato e logorroico, in alcuni passaggi coinvolge come Ben Harper e i suoi diretti discendenti ovvero Jack Johnson e John Butler. Molto ritmo (macinato da Massimo Allevi al basso e Francesco Croci alla batteria), molta psichedelia, una gran bella voce: Jama non fa mistero poi delle sue influenze, in gran parte anglosassoni e tra l’altro già rese esplicite negli omaggi contenuti in InToilettEual And Poor, l’EP che ha preceduto Soma. Con John Martyn e Van Morrison a occupare un posto stabile nella sua discoteca, Jama parte da lì per arrivare per modulare divagazioni strumentali o il divertimento corale di Country Song che conclude Soma come se fosse una festa sull’aia, con leggerezza e intelligenza. Altrove i percorsi sono più complessi perché la ricchezza musicale di Jama e del suo trio (lui compreso) è abbastanza matura da sapersi esprimere in modo efficace negli angoli di uno studio di registrazione, anche se la spontaneità dal vivo è tutta un’altra storia. Soma rimane quindi un bel biglietto da visita per un musicista che ha scelto un modo unico di proporsi, senza tanti patemi e con un brio tutto suo. Tenetelo d’occhio. (Eddie Spinazzi) 

martedì 11 febbraio 2014

Rumor

Dopo un primo, omonimo e acerbissimo EP, i Rumor hanno spiccato un salto notevole che si riflette in tutto e per tutto in questo Pois, un altro EP di cinque canzoni. Il taglio del trio, all’epoca composta da Marco Platini alla voce (più basso, sinth e altre diavolerie), Elia Anelli alle chitarre e Andrea Marini alle percussioni, si accosta senza esitazioni alle nuove generazioni della musica italiana con un uso spregiudicato della lingua e nessuna esitazione dal punto di vista strumentale, dove hanno la tendenza a colpire duro e a lasciarsi andare. D’altra parte, se possono i Baustelle, non si capisce perché non potrebbero anche i Rumor: l’essenza chitarristica di Pois richiama echi lontani di Echo & The Bunnymen o degli Smiths (Iuvullai) o dei Cure, un patrimonio che in Italia ha sempre trovato grande ospitalità, per arrivare a citare, anche con una certa spudoratezza, i primi, indimenticabili U2 nell’inciso di Di notte di nuovo o nell’incipit di Diamine!. Il sound è convincente, deciso, solido e le canzoni meritano di essere scoperte nel dettaglio, in particolare Il risveglio, un tour de force sonoro ed emotivo in cui Marco Platini e i Rumor tutti sembrano esprimersi al meglio, compresa l’eccessiva enfasi della coda finale. Belli solidi, i Rumor mostrano anche abbastanza scaltrezza da chiudere Pois con Bambini una ballata tanto morbida nei suoni, quanto oscura nelle parole, che ci stanno pure. Poco meno di venti minuti di belle speranze. Ne sentiremo parlare ancora. (Stefano Hourria)

domenica 26 gennaio 2014

Malagang

E’ abbastanza condividere un piccolo paese e una grande passione per ritrovarsi, prima o poi, insieme. Filottrano è poco più di un villaggio sperso tra le colline marchigiane, ma è diventato ben noto a chiunque si occupi di musica italiana con appena un po' di discrezione in più del solito per aver dato i natali ai fratelli Severini, meglio noti come Gang, protagonisti di una lunga carriera piena di dischi stupendi e di un tour infinito che li vede sulla strada tutto l’anno, o quasi, a cantare canzoni e raccontare storie. I Malavida vengono da lì e sulle tracce dei Gang si sono mossi magari con un filo di esperienza in meno (verrà con il tempo) ma con la stessa destrezza. Incontrarsi sembrerebbe ovvio e naturale, ma non sempre è così facile incrociare strade che sono pur sempre diverse. I Malavida e i Gang sono stati aiutati più dalla comune passione che dalla stessa residenza o almeno così pare ascoltando Malagang. L’incontro però diventa una sorta di happening perché i Gang e i Malavida oltre a condividere vicoli e passioni hanno anche la stessa attitudine verso la strada e la musica e così ritrovarsi è stata l’occasione per rivedere la Banda Bassotti, i Border Radio, i Gente De Rua, i Radio Babylon e molti altri che sono intervenuti a vario titolo, nel riproporre un pugno di canzoni dei Malavida, degli stessi Gang e una rivisitazione, tra l’altro, di Straight To Hell degli ultimi Clash, modelli di riferimento per tutti. Un capitolo estemporaneo, peraltro non l’unico, nella storia dei Gang, ma emblematico nel mostrare lo spirito di condivisione che li anima. (Lucia Jorio)

venerdì 24 gennaio 2014

Mandolin' Brothers

Si può spiegare Far Out dei Mandolin’ Brothers con un concetto semplice, essenziale, elementare, diretto: rock’n’roll al suo meglio. Dove abitano o che idioma parlano quando non cantano rimane un fattore abbastanza trascurabile, a questo punto: i Mandolin’ Brothers, qui coadiuvati con grande discrezione e assoluta dedizione alla causa da Jono Manson, dimostrano con Far Out di padroneggiare la lingua del rock’n’roll con tutta quella naturalezza che viene da un’insolita e instabile quel tanto che basta miscela di esperienza e istinto. Del primo ingrediente di questa gioiosa nitroglicerina, i Mandolin’ Brothers ne hanno in abbondanza, essendo sulla strada da oltre trent’anni. Del secondo, sono ancora così appassionati, e in Far Out a tratti si sente persino a livello epidermico, da essersi lasciati alle spalle, senza troppe esitazioni, anche un disco (splendido) come Still Got Dreams. Con Far Out, e lo dice il titolo stesso, si sono allontanati da casa, parecchio, e in effetti la confluenza di intenzioni tra Mandolin’ Brothers e Jono Manson ha prodotto qualcosa di diverso, rivelando un’elasticità e una visione, in prospettiva, del tutto inedite. I capolavori sono altri, d’accordo e nessuno in questa sede ha intenzione di contraddire i giudici, i critici e le enciclopedie. I Mandolin’ Brothers (e Jono Manson, che abbiamo adottato) vivono il rock’n’roll in un altro modo, che poi è quello giusto. Con un riff in più e il volume leggermente alticcio, che è poi il senso giusto con cui accostarsi a Far Out. (Eddie Spinazzi)